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Amico o nemico? A proposito della fiducia nelle relazioni.

mercoledì 29 novembre 2017 - 17:30

Dott.ssa Giulia Citarelli

 

"Sono poche le persone che io amo veramente, e ancora meno quelle che stimo.

Più conosco il mondo, più ne sono delusa,

ed ogni giorno di più viene confermata la mia opinione sulla incoerenza del carattere umano,

e sul poco affidamento che si può fare sulle apparenze,

siano esse di merito o di intelligenza".
(Jane Austen)

 

 

"Fidarsi è bene non fidarsi è meglio": i detti provenienti dalla saggezza popolare spesso racchiudono in sé le credenze, i miti, le visioni socialmente condivise relative ad una serie di questioni di ordine sia quotidiano che più complesse.


In uno scenario sociale all'interno del quale la diversità sembrerebbe esser divenuta una costante con cui ci si trova a fare i conti continuamente, basti pensare ai processi migratori, o agli effetti della globalizzazione, caratterizzato dall'aumento degli atti terroristici ed alla conseguente sensazione di diffidenza, sembrerebbe essersi diffusa la percezione di come  "il nemico" possa esser sempre dietro l'angolo: in una piazza, in un concerto, sulla rete, ove la condivisione di informazioni personali in tempo reale ha determinato una specie di "effetto occhio del grande fratello onnipresente" (...). Ebbene, che spazio ha, all'interno di un siffatto contesto, la fiducia quale principale motore dei rapporti umani? E, ritornando al titolo del nostro articolo, quali criteri vengono utilizzati per distinguere l'amico dal nemico? Ossia, come viene connotato emozionalmente l'altro?


Nella "Teoria della detezione del segnale", il fisico Angelo Beretta, parlando di procedure  per rilevare la presenza di un aereo fonte di pericolo per un altro sulla propria traiettoria,  individua due criteri che orientano la decisione in situazioni di incertezza (discriminare il segnale dal rumore di fondo): l'uno rappresenterebbe l'opzione di risposta "no" comportando, nel caso in cui l'aereo non fosse effettivamente presente, una previsione corretta e, qualora l'aereo fosse invece presente, una percentuale di errore con conseguenze anche molto negative, l'altro costituirebbe la risposta "sì", in quel caso se l'aereo fosse presente, vorrà dire che esso sarà stato correttamente individuato e previsto dal segnale, nel caso contrario, invece, ci si troverebbe dinanzi a ciò che siamo soliti denominare come un "falso allarme".


Renzo Carli, psicologo clinico, nei suoi approfondimenti rispetto al concetto di "collusione" (Carli R., 1968 e successivi), ha applicato tale teoria al campo delle relazioni interpersonali. Questa teoria ci aiuta a chiarire le due modalità con le quali ci è possibile rapportarci con gli altri, partendo dal presupposto che l'incontro con l'altro, sconosciuto, rappresenta, in ogni caso, una situazione di incertezza. Siamo in presenza di un nemico? Seguendo la teoria di Beretta che proviene dal mondo della fisica, avremmo due opzioni possibili. Qualora azionassimo sempre il segnale "sì", saremmo sicuramente più protetti, tenendo presente il fatto che potremmo avere una parte di falsi allarmi; viceversa, preferire il criterio "no" ci esporrebbe maggiormente al rischio di non individuare dei potenziali pericoli e di poterne, pertanto, ricavare delle conseguenze negative.

Cosa fare allora?


A ben guardare, amico e nemico non sono nient'altro che due modi per negare l'estraneità. L'altro, in entrambi i casi, finisce per essere inglobato nei nostri schemi, perché al di fuori di questi ci si sente spesso disorientati, tutto ciò a costo di perdere l'apertura, la curiosità, la spontaneità, fonti di arricchimento nei rapporti interpersonali: "Sono sicuro che non mi tradirà", "Solo io so cosa va bene per mio figlio" sono solo alcuni esempi di situazioni in cui l'emozionalità agita, seguendo i binari del possesso e della pretesa fondata sul ruolo, che ne rappresenta una delle possibili forme, si sostituisce allo scambio.


L'estraneo ha l'incolmabile valore di essere il non conosciuto per sé, ciò che non può adattarsi ai nostri bisogni, spesso inconsapevoli, è ciò che possiamo scoprire, giorno dopo giorno, ciò che non può essere "familisticamente" inglobato entro dimensioni scontate. I figli per i genitori, i genitori per i figli, il marito per la moglie, l'amica per l'amico possono riacquistare il valore arricchente nel momento in cui, ritornando alla teoria formulata da Beretta, rischiamo maggiormente l'errore di "missing", ossia ci posizioniamo in maniera tale da non dare per scontata la presenza di un nemico, da attaccare, da cui fuggire, da controllare, e di considerare l'evenienza del nemico soltanto nel momento in cui dovessimo avere dei segnali "manifesti", "tangibili" in questo senso.
Ciò vuol dire entrare nel campo della fiducia, non disincantata ma consapevole e che ci consente di uscire dalle briglie della pretesa, spesso acontestuale e derivante da dinamiche agite, e del pregiudizio,  in altri termini di spezzare la catena delle cosiddette "profezie auto verificantesi" (Merton, 1948) aprendo la strada al nuovo, all'incontro reale ed autentico con l'altro.

 

Il ruolo della fiducia nell'ambito della relazione terapeutica


Come in ogni altra relazione, anche in quella terapeutica la fiducia gioca un ruolo fondamentale influenzando in buona parte la possibilità stessa di un lavoro condiviso tra paziente e terapeuta. Molteplici sono le evidenze e gli studi sull'alleanza terapeutica quale fattore trasversale maggiormente collegato al buon esito di una psicoterapia, a prescindere dall'orientamento teorico di quest'ultima (si veda a tal proposito Dazzi, Lingiardi, 2006).

 

Tuttavia, ciò che ci preme sottolineare, è come anche nel setting terapeutico la fiducia non possa esser data per scontata; a nostro parere, essa rappresenta più una costruzione, l'esito di un processo di affidamento delicato, le cui forme, tempi e modi hanno a che fare con una serie di fattori, in primis, a nostro parere, con le relazioni oggettuali interiorizzate (si veda, ad esempio, Fairbairn, 1992). La riproposizione, in maniera inconsapevole, di modelli e schemi di relazione sperimentati con le proprie figure di accudimento, può talvolta costituire una criticità da gestire all'interno del processo terapeutico, ma anche una grandissima fonte di informazioni se ci si approccia con rispetto per i tempi dell'altro, facilitando l'emergere, in termini molto spesso procedurali, più che espressamente verbali, di dinamiche dense di significati e vissuti soggettivi.


Tutto ciò è possibile solo se il terapeuta stesso, per primo, ha fiducia nel processo.

 


Riferimenti bibliografici


Austen, J. (1813). Pride and prejudice. Thomas Egerton.
Beretta A. (1968). Teoria della detezione del segnale. Firenze: Edizioni OS.
Carli, R. (2006). La collusione e le sue basi sperimentali. Rivista di Psicologia Clinica n.2/3.
Carli R., Paniccia R.M. (2003). L'analisi della domanda. Teoria e tecnica dell'intervento in psicologia clinica. Bologna: Il Mulino.
Dazzi, N., Lingiardi, V., & Colli, A., (2006) (Eds). La ricerca in psicoterapia. Modelli e strumenti. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Fairbairn, W. R. D. (1992). Studi psicoanalitici sulla personalità. Torino: Bollati Boringhieri.
Merton, R.K, (1948). The self-fulfilling prophecy. RK Merton. The Antioch Review 8/2.

 

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